25 novembre, 2005

"La mia giornata a cucire jeans
vale 6.600 lire"

Ore 8 della mattina nel quartiere di Kagithane, periferia di Istanbul, lato europeo del Bosforo. Le strade sono piene di buche e di fango. Il cielo è un tetto di smog. Dalle corriere scendono gli operai delle fabbriche della Sanayi Mahallesi, una zona industriale semiabusiva che pullula di stabilimenti tessili e officine meccaniche. Le ragazze hanno il velo, i maschi indossano giubbotti di pelle nera. Ozcan Babat, 12 anni, ha gli occhi ancora pieni di sonno, ma i suoi tre fratelli maggiori lo trascinano verso la fabbrica Bermuda: un palazzo a tre piani, simile a una casa popolare, dove lavorano 250 persone.

Ozcan dovrebbe andare a scuola: lo dice la legge turca, lo dice la convenzione internazionale sul lavoro dei minori (che proibisce il lavoro a chi ha meno di 14 anni), lo dice la sua faccia spaurita di profugo curdo scappato da un villaggio in fiamme.

Ozcan, invece, tutte le mattine alle 8 va in fabbrica. «Da un anno vengo qui a lavorare con i miei fratelli. Io sono in nero, loro assunti regolarmente. A me danno 22 milioni di lire turche al mese (132 mila lire italiane, 6.600 lire al giorno). Nessuna copertura assicurativa, niente contributi sociali. Mi pagano in contanti, una volta alla settimana. A me piace. Cosa faccio? Cucio pantaloni. Di che marca? Benetton. Tutti noi fabbrichiamo vestiti Benetton». Le domande insospettiscono i fratelli di Ozcan. Alla fine c'è solo il tempo di scattare qualche fotografia: poi I quattro fratelli riescono a «scappare».

Mehmet Kocak ha 11 anni. Anche lui scende dalla corriera alle 8 di mattina e vi risale alle 18.30, perché in questi giorni alla Bermuda fioccano gli ordini per la primavera '99. Vengono dalla Bogazici Hazir Giyim, la società che è il partner locale di Benetton in Turchia (vedere articolo a pagina 4). Bogazici era fino al 1995 partecipata al 50% da Benetton International. Allora si chiamava Benetton Bogazici (sigifica Bosforo). Poi ha cambiato ragione sociale e le quote italiane sono state tutte vendute alla famiglia Boyer, che ne era già azionista. Ora è una azienda indipendente, legata da contratti di appalto e di licenza a Benetton: la casa italiana invia i modelli da riprodurre e a volte anche i tessuti dai quali ricavarli. I legami tra le due aziende restano stretti: all'ingresso della BoÃgazici campeggia ancora la scritta Benetton. E i centralinisti rispondono alle telefonate con una parola: «Benetton».

Benetton sta conducendo due grandi campagne pubblicitarie a livello mondiale: una in centrata sui bambini portatori di handicap, l'altra -con i volti multietnici della United Colors of Benetton- incentrata sul 50esimo anniversario della Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite e sulla Convenzione sui diritti del bambino. L'articolo 23 di quest'ultima dice: «I firmatari riconoscono il diritto del bambino a essere protetto dallo sfruttamento economico e dall'eseguire qualsiasi lavoro pericoloso o che interferisca con il diritto all'istruzione.

Sono concetti lontani mille miglia dalla realtà quotidiana di un bambino come Mehmet Kocak. Anche lui lavora alla Bermuda da un anno. «Io tengo I pantaloni Benetton tesi mentre un operaio adulto fa andare la macchina cucitrice sui fianchi e sulla cintola. Se mi piace? Mah. Comunque a me studiare fa schifo», racconta pochi minuti prima di iniziare il proprio turno. Per 132 mila lire al mese, Mehmet è una rotella di una lunga catena, che di subfornitore in subfornitore sforna vestiti casual venduti ciascuno a cifre superiori al suo stipendio: nel negozio 012 di Benetton (specializzato in abbigliamento per bambini), nel centro di quella stessa Istanbul, un giubbotto invernale costa 38 milioni di lire turche (228 mila lire italiane). Per poterlo comprare, Mehmet e gli altri bambini sotto I 14 anni che lavorano a Bermuda dovrebbero lavorare per un mese e mezzo. Come Mehmet e Ozcan, anche Ercan Yildirim è un bambino-operaio che viene dal Kurdistan turco. Ha 13 anni e nell'intervallo di lavoro, dopo aver mangiato in mensa, va a giocare alla portineria della Bermuda. Salta sulle mattonelle bianche e nere, nel gioco che i bambini italiani chiamano della campana e i turchi «sek sek». Quando un estraneo lo avvicina, dalla guardiola arrivano subito portinai nerboruti che minacciano: «Via di qui. Abbiamo ordine di non far avvicinare nessuno». E il direttore amministrativo, scambiando i cronisti per uomini d'affari, avverte: «Abbiamo firmato un accordo con Bogazici che ci impedisce di far entrare chi non è autorizzato. È per tutelare la privacy della società italiana committente».

Ma a sostegno di una denuncia così grave come quella fatta dai sindacati turchi (vedere articolo a pagina 4), le testimonianze raccolte all'esterno della fabbrica non sono sufficienti. Si deve entrare in prima persona nella Bermuda -uno dei principali produttori di abbigliamento Benetton in Turchia e un importante subfornitore di Bogazici-, vedere i bambini-operai al lavoro, fotografarli, raccogliere le dichiarazioni del pre sidente-amministratore delegato della fabbrica. Constatare che il marchio applicato sugli indumenti è davvero quello Benetton. E che nei reparti di cucitura e taglio campeggiano scatoloni con dentro il tessuto inviato dal'Italia.

Per entrare, quindi, il cronista del Corriere e il giornalista turco Ali Isingor, 24 anni, autore di importanti inchieste, si sono dovuti spacciare per - rispettivamente - un imprenditore italiano del settore dell'abbigliamento e il suo interprete turco. Ali Isingor, infatti, ha frequentato il liceo italiano di Istanbul.È stato lui a scattare la maggior parte delle fotografie che appaiono in questo servizio (le altre sono del fotografo Utku Topal). Al proprietario della fabbrica Bermuda, l'imprenditore Ilyas Harunzade, abbiamo raccontato di voler documentare i macchinari della sua azienda, per convincere gli aderenti a una fantomatica Associazione della Moda a spostare la produzione in Turchia.

Dopo molte esitazioni, Harunzade ha dato l'autorizzazione. Così Ali Isingor ha potuto trasformarsi da interprete a fotografo, mentre il giornalista del Corriere discuteva di tessuti, cerniere e controllo-qualità. L'imprenditore turco Harunzade racconta: «Se le vostre aziende vorranno inviare ispettori alla Bermuda, saranno i benvenuti. Succede già con i prodotti Benetton: Bogazici manda ispettori ogni due-tre giorni. Controllano che la nostra produzione mantenga gli standard concordati alla firma del contratto. I rapporti tra noi e l'azienda italiana sono amichevoli e di intensa collaborazione. Loro sono i miei principali clienti, anche se ricevo commesse da parte di aziende americane, tedesche e turche».

Entrare alla Bermuda non è stato facile. Una volta dentro, molti dei bambini intervistati e fotografati all'ingresso della fabbrica li abbiamo ritrovati al lavoro. Sorridenti nella loro tuta blu. Le condizioni di lavoro sono abbastanza buone. Ma la loro infanzia si consuma lavorando, perché in casa c'è bisogno di soldi e i profughi curdi fuggiti dalla guerra restano i più vulnerabili tra i 12 milioni di abitanti di Istanbul.

Bogazici, quindi, è la società capofila. Sotto, in subappalto, ci sono Bermuda e altri produttori. Più sotto ancora 25-30 piccoli laboratori artigianali che ricevono commesse per eseguire segmenti di lavorazione. Alla società Gorkem Spor Giyim, uno scantinato pieno di rotoli di stoffa, l'imprenditore Yusuf Eskenazi mostra un capo Benetton appena finito dai suoi operai. È un giubbotto da bambino. Eskenazi spiega al cronista cammuffato da industriale: «Loro, vale a dire Bogazici, ci consegnano il campione Benetton e noi produciamo il numero di capi richiesto.

Cinquemila, diecimila, qualunque quantità. Eseguiamo a mano il taglio dei tessuti e le cuciture qui o presso sub-subfornitori che lavorano per me». Su questi vestiti la targhetta dice: Made in Italy. Davanti al negozio 012 del centro di Istanbul, un venditore di frittelle ha piazzato il proprio carrettino. «Io ho alcuni fratelli piccoli -racconta-. Lavorano in fabbriche tessili». Magari sono come Osman Jirki, che di anni dice di averne 15 anche se ne dimostra non più di 11. Il suo giocattolo si chiama overlock: è una cucitrice speciale, che applica punti grossi su pantaloni gialli, ro ssi e blu. Pantaloni allegri, per bambini più fortunati. Il signor Harunzade, invece, li giudica da un altro punto di vista. Strizzando l'occhio al futuro socio d'affari italiano dice: «E costano pochissimo».




P.S.: Questo articolo che ha avuto un grande successo, è stato pubblicato sul Corriere Della Sera, in 12 ottobre 1998.