25 novembre, 2005

"La mia giornata a cucire jeans
vale 6.600 lire"

Ore 8 della mattina nel quartiere di Kagithane, periferia di Istanbul, lato europeo del Bosforo. Le strade sono piene di buche e di fango. Il cielo è un tetto di smog. Dalle corriere scendono gli operai delle fabbriche della Sanayi Mahallesi, una zona industriale semiabusiva che pullula di stabilimenti tessili e officine meccaniche. Le ragazze hanno il velo, i maschi indossano giubbotti di pelle nera. Ozcan Babat, 12 anni, ha gli occhi ancora pieni di sonno, ma i suoi tre fratelli maggiori lo trascinano verso la fabbrica Bermuda: un palazzo a tre piani, simile a una casa popolare, dove lavorano 250 persone.

Ozcan dovrebbe andare a scuola: lo dice la legge turca, lo dice la convenzione internazionale sul lavoro dei minori (che proibisce il lavoro a chi ha meno di 14 anni), lo dice la sua faccia spaurita di profugo curdo scappato da un villaggio in fiamme.

Ozcan, invece, tutte le mattine alle 8 va in fabbrica. «Da un anno vengo qui a lavorare con i miei fratelli. Io sono in nero, loro assunti regolarmente. A me danno 22 milioni di lire turche al mese (132 mila lire italiane, 6.600 lire al giorno). Nessuna copertura assicurativa, niente contributi sociali. Mi pagano in contanti, una volta alla settimana. A me piace. Cosa faccio? Cucio pantaloni. Di che marca? Benetton. Tutti noi fabbrichiamo vestiti Benetton». Le domande insospettiscono i fratelli di Ozcan. Alla fine c'è solo il tempo di scattare qualche fotografia: poi I quattro fratelli riescono a «scappare».

Mehmet Kocak ha 11 anni. Anche lui scende dalla corriera alle 8 di mattina e vi risale alle 18.30, perché in questi giorni alla Bermuda fioccano gli ordini per la primavera '99. Vengono dalla Bogazici Hazir Giyim, la società che è il partner locale di Benetton in Turchia (vedere articolo a pagina 4). Bogazici era fino al 1995 partecipata al 50% da Benetton International. Allora si chiamava Benetton Bogazici (sigifica Bosforo). Poi ha cambiato ragione sociale e le quote italiane sono state tutte vendute alla famiglia Boyer, che ne era già azionista. Ora è una azienda indipendente, legata da contratti di appalto e di licenza a Benetton: la casa italiana invia i modelli da riprodurre e a volte anche i tessuti dai quali ricavarli. I legami tra le due aziende restano stretti: all'ingresso della BoÃgazici campeggia ancora la scritta Benetton. E i centralinisti rispondono alle telefonate con una parola: «Benetton».

Benetton sta conducendo due grandi campagne pubblicitarie a livello mondiale: una in centrata sui bambini portatori di handicap, l'altra -con i volti multietnici della United Colors of Benetton- incentrata sul 50esimo anniversario della Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite e sulla Convenzione sui diritti del bambino. L'articolo 23 di quest'ultima dice: «I firmatari riconoscono il diritto del bambino a essere protetto dallo sfruttamento economico e dall'eseguire qualsiasi lavoro pericoloso o che interferisca con il diritto all'istruzione.

Sono concetti lontani mille miglia dalla realtà quotidiana di un bambino come Mehmet Kocak. Anche lui lavora alla Bermuda da un anno. «Io tengo I pantaloni Benetton tesi mentre un operaio adulto fa andare la macchina cucitrice sui fianchi e sulla cintola. Se mi piace? Mah. Comunque a me studiare fa schifo», racconta pochi minuti prima di iniziare il proprio turno. Per 132 mila lire al mese, Mehmet è una rotella di una lunga catena, che di subfornitore in subfornitore sforna vestiti casual venduti ciascuno a cifre superiori al suo stipendio: nel negozio 012 di Benetton (specializzato in abbigliamento per bambini), nel centro di quella stessa Istanbul, un giubbotto invernale costa 38 milioni di lire turche (228 mila lire italiane). Per poterlo comprare, Mehmet e gli altri bambini sotto I 14 anni che lavorano a Bermuda dovrebbero lavorare per un mese e mezzo. Come Mehmet e Ozcan, anche Ercan Yildirim è un bambino-operaio che viene dal Kurdistan turco. Ha 13 anni e nell'intervallo di lavoro, dopo aver mangiato in mensa, va a giocare alla portineria della Bermuda. Salta sulle mattonelle bianche e nere, nel gioco che i bambini italiani chiamano della campana e i turchi «sek sek». Quando un estraneo lo avvicina, dalla guardiola arrivano subito portinai nerboruti che minacciano: «Via di qui. Abbiamo ordine di non far avvicinare nessuno». E il direttore amministrativo, scambiando i cronisti per uomini d'affari, avverte: «Abbiamo firmato un accordo con Bogazici che ci impedisce di far entrare chi non è autorizzato. È per tutelare la privacy della società italiana committente».

Ma a sostegno di una denuncia così grave come quella fatta dai sindacati turchi (vedere articolo a pagina 4), le testimonianze raccolte all'esterno della fabbrica non sono sufficienti. Si deve entrare in prima persona nella Bermuda -uno dei principali produttori di abbigliamento Benetton in Turchia e un importante subfornitore di Bogazici-, vedere i bambini-operai al lavoro, fotografarli, raccogliere le dichiarazioni del pre sidente-amministratore delegato della fabbrica. Constatare che il marchio applicato sugli indumenti è davvero quello Benetton. E che nei reparti di cucitura e taglio campeggiano scatoloni con dentro il tessuto inviato dal'Italia.

Per entrare, quindi, il cronista del Corriere e il giornalista turco Ali Isingor, 24 anni, autore di importanti inchieste, si sono dovuti spacciare per - rispettivamente - un imprenditore italiano del settore dell'abbigliamento e il suo interprete turco. Ali Isingor, infatti, ha frequentato il liceo italiano di Istanbul.È stato lui a scattare la maggior parte delle fotografie che appaiono in questo servizio (le altre sono del fotografo Utku Topal). Al proprietario della fabbrica Bermuda, l'imprenditore Ilyas Harunzade, abbiamo raccontato di voler documentare i macchinari della sua azienda, per convincere gli aderenti a una fantomatica Associazione della Moda a spostare la produzione in Turchia.

Dopo molte esitazioni, Harunzade ha dato l'autorizzazione. Così Ali Isingor ha potuto trasformarsi da interprete a fotografo, mentre il giornalista del Corriere discuteva di tessuti, cerniere e controllo-qualità. L'imprenditore turco Harunzade racconta: «Se le vostre aziende vorranno inviare ispettori alla Bermuda, saranno i benvenuti. Succede già con i prodotti Benetton: Bogazici manda ispettori ogni due-tre giorni. Controllano che la nostra produzione mantenga gli standard concordati alla firma del contratto. I rapporti tra noi e l'azienda italiana sono amichevoli e di intensa collaborazione. Loro sono i miei principali clienti, anche se ricevo commesse da parte di aziende americane, tedesche e turche».

Entrare alla Bermuda non è stato facile. Una volta dentro, molti dei bambini intervistati e fotografati all'ingresso della fabbrica li abbiamo ritrovati al lavoro. Sorridenti nella loro tuta blu. Le condizioni di lavoro sono abbastanza buone. Ma la loro infanzia si consuma lavorando, perché in casa c'è bisogno di soldi e i profughi curdi fuggiti dalla guerra restano i più vulnerabili tra i 12 milioni di abitanti di Istanbul.

Bogazici, quindi, è la società capofila. Sotto, in subappalto, ci sono Bermuda e altri produttori. Più sotto ancora 25-30 piccoli laboratori artigianali che ricevono commesse per eseguire segmenti di lavorazione. Alla società Gorkem Spor Giyim, uno scantinato pieno di rotoli di stoffa, l'imprenditore Yusuf Eskenazi mostra un capo Benetton appena finito dai suoi operai. È un giubbotto da bambino. Eskenazi spiega al cronista cammuffato da industriale: «Loro, vale a dire Bogazici, ci consegnano il campione Benetton e noi produciamo il numero di capi richiesto.

Cinquemila, diecimila, qualunque quantità. Eseguiamo a mano il taglio dei tessuti e le cuciture qui o presso sub-subfornitori che lavorano per me». Su questi vestiti la targhetta dice: Made in Italy. Davanti al negozio 012 del centro di Istanbul, un venditore di frittelle ha piazzato il proprio carrettino. «Io ho alcuni fratelli piccoli -racconta-. Lavorano in fabbriche tessili». Magari sono come Osman Jirki, che di anni dice di averne 15 anche se ne dimostra non più di 11. Il suo giocattolo si chiama overlock: è una cucitrice speciale, che applica punti grossi su pantaloni gialli, ro ssi e blu. Pantaloni allegri, per bambini più fortunati. Il signor Harunzade, invece, li giudica da un altro punto di vista. Strizzando l'occhio al futuro socio d'affari italiano dice: «E costano pochissimo».




P.S.: Questo articolo che ha avuto un grande successo, è stato pubblicato sul Corriere Della Sera, in 12 ottobre 1998.

15 ottobre, 2005

«Con noi si realizza l'idea d'Europa»


Lo scrittore Ahmet Altan, 55 anni, è uno dei volti più conosciuti della Turchia. La sua immagine, che qui si affaccia con una gigantografia sul Bosforo, annuncia l'uscita del suo nuovo libro «La notte più lunga». La prima tiratura di 500 mila copie è già esaurita, ma non è ancora un record per lui che l'anno scorso ha venduto più di un milione di esemplari di un altro racconto, «Un luogo dentro di noi». «Racconto storie d'amore e sentimentali -dice Altan- per questo sono diventato popolare e famoso».

Per la verità Altan negli anni 80 salì alla ribalta con un articolo rimasto nella storia del giornalismo politico. Si intitolava «Atakurd» e immaginava che Mustafa Kemal Ataturk, il padre della patria, fosse nato a Diyarbakir, cuore del Kurdistan. Quell'articolo in cui si difendevano i diritti dei curdi gli costò il carcere. Ma la politica torna anche nei libri e le sue storie hanno sempre un sottofondo sociale. Ed è con il suo stile così amato dai lettori, paragonato al realismo magico di Gabriel Garcia Marquez, che Altan parla della Turchia in Europa.

«Per la prima volta l'Unione accetta un Paese non europeo. Per alcuni significa la crisi dell'Europa tradizionale, il tradimento dei suoi confini storici e politici. In realtà, per me, l'idea di Europa è un grande progetto che ha al centro l'uomo, un'idea per cui l'individuo è più importante delle frontiere e dello Stato in cui è nato. Se L'Unione rifiutasse la Turchia non metterebbe più al centro l'individuo ma proprio i confini che si propone di abbattere». Accettando i turchi, prosegue Altan, «questa grande idea europea assume invece una dimensione globale. Oggi non c'è in circolazione un'idea concreta più forte e affascinante del progetto europeo: credo che tra 10-15 anni l'Unione potrà collegare il mondo sotto l'ombrello di questa grande idea».

Ma la Turchia suscita diffidenza: è un grande Paese di 70 milioni di musulmani, con una cultura diversa. «Certamente - dice Altan - siamo un altro mondo ma non è questo il solo motivo che rende diffidente l'Unione. In realtà gli europei hanno grandi difficoltà a essere realmente europei: un italiano è un italiano, un francese si sente francese, un tedesco pensa da tedesco. Non sono ancora capaci di essere europei prima di qualche cosa d'altro. La Turchia può dare un contributo importante all'Europa. Siamo diversi, con stili di vita differenti, viviamo in un'atmosfera dove hanno importanza i miti e molte cose sono ancora avvolte in un'aura misteriosa. Questa diversità può attirare, come l'amore attrae persone diverse».

E l'Europa cosa porta alla Turchia? «La Turchia è sotto molti aspetti un problema: per esempio non è capace di cambiare da sola. Deve sempre farlo con una spinta dall'esterno. Ha bisogno di varare e applicare le leggi europee, che sono universali. L'esercito non deve entrare nella vita politica e nessuno deve essere processato per le sue opinioni». Come potrebbe accadere a un collega di Altan, lo scrittore Ohran Pamuk denunciato per le sue dichiarazioni sul genocidio degli armeni.

Il traguardo dell'ingresso in Europa ha comunque già trasformato questo Paese. «Oggi succedono cose un tempo impensabili: alla tv trasmettono serial dove si prendono in giro i militari, argomento intoccabile quattro o cinque anni fa. Un altro tabù che sta cadendo è la nostra storia. Abbiamo cominciato a dibattere su un passato sanguinoso: dagli armeni, ai curdi, ai greci. Potremmo però anche cominciare a rivalutare anche una storia positiva: quella che ha visto convivere qui popoli e religioni diverse». Lo sguardo di Altan, dalla sua terrazza sulla parte asiatica del Bosforo, corre all'Isola dei Principi. «A Burgaz e Ortakoy musulmani, cristiani ed ebrei hanno vissuto fianco a fianco per secoli e non è difficile vedere una moschea accanto a una sinagoga e una chiesa. È vero, siamo musulmani -dice con ironia– ma anche un po' speciali: il 30% di noi sono aleviti, a Istanbul c'è una moschea ogni 700 abitanti, ma i luoghi di culto sono vuoti. Durante il Ramadan che inizia oggi molti di noi mangiano, bevono persino il vino, e siamo anche troppo pigri per pregare cinque volte al giorno».



P. S.: Questo articolo firmato da Alberto Negri, pubblicato in 05/10/2005 sul Sole 24 Ore, si e' fatta con la collaborazione del giornalista turco Ali Isingor.

08 ottobre, 2005

Istanbul: l'Europa è già qui


Otto milioni di nuovi telefonini in un anno, crescita economica al 9 per cento, un oleodotto gigantesco... Il primo paese islamico che bussa alle porte Ue, e non viene bene accolto, provocatoriamente si chiede: ma ne abbiamo bisogno?

È un fiume in piena che si riversa ogni sera in Istiklal Caddesi, giù per l'isola pedonale che scende dalla collina di Galata fino al Corno d'Oro attraversando il vecchio rione genovese.

Un fiume di giovani, luci e colori, in cui si mescolano volti caucasici e turchi, greci e russi, curdi e uzbeki. Sfilano studentesse con il velo islamico da cui spuntano le cuffie dell'iPod e ragazze con l'ombelico nudo, suonatori di sax, flautisti sufi, violisti gitani, rapper e agenti di borsa con il laptop sottobraccio.

Potrebbe essere una strada di Londra, di Milano, Vienna o Berlino, se non fosse per la contadina con il fazzoletto scarlatto annodato sul mento e i larghi sirwal ai fianchi, che offre cestini di lavanda profumata agli avventori di un affollato Burger King. O per la voce tremula del muezzin, che dalla moschea di Huseyin Aga si danna per sovrastare la cacofonia dell'house music imperante nei bar.

La vita notturna di Istanbul che pulsa a Beyoglu, l'ex quartiere cristiano di Pera, è lo specchio della rinascita culturale ed economica di una città riemersa da un lungo periodo di decadenza e proiettata nel futuro.

Alla vigilia dell'apertura dei negoziati per l'adesione della Turchia alla Ue (3 ottobre), Istanbul offre di sé l'immagine di una metropoli più cosmopolita, più aperta, persino più laica e tollerante di molte città italiane ed europee.

Istanbul non è la Turchia dell'Anatolia profonda. E nelle sue sterminate periferie dilagano gli slum di un'urbanizzazione selvaggia, segnata dalle piaghe della povertà, dell'emarginazione e della droga.

Ma la megalopoli (10 milioni di abitanti) ospita il 45 per cento dell'industria nazionale, produce il 55 per cento del pil e genera il 60 per cento dell'export. Ed è il motore di una spettacolare crescita delle attività commerciali e dei consumi.

Come testimonia il numero dei mercantili alla fonda nel Mar di Marmara, sotto gli imponenti profili del Topkapi e della Moschea blu: almeno un centinaio tra petroliere, gasiere, cargo, portacontainer e navi frigorifere in attesa di riempire le stive, di risalire il Bosforo dirette agli scali russi o di salpare per i porti del Mediterraneo.

Le riforme strutturali caldeggiate dal Fondo monetario e dalla Ue non hanno cancellato l'eccessivo indebitamento pubblico e con l'estero (17 miliardi di dollari), né la soffocante presenza dello stato nel settore bancario, dei trasporti e delle comunicazoni. Ma il tasso d'inflazione è sceso in soli tre anni dal 70 all'8 per cento, la disoccupazione è in calo, il sistema economico cresce al ritmo del 9 per cento, il turismo è florido, la borsa è ai massimi storici e le privatizzazioni vanno avanti.

In agosto la Turk Telekom ha venduto il 55 per cento delle sue azioni a Saudi Oger e Telecom Italia. In settembre, il 51 per cento della raffineria Tupras è andato a privati locali e alla Shell. Una tendenza che il governo di Recep Tayyip Erdogan è deciso a consolidare, nonostante la contrarietà dell'ultranazionalista presidente Ahmet Necdet Sezer.

Solo nell'ultimo anno sono stati venduti 8 milioni di telefoni cellulari e gli abbonati sono oltre 35 milioni, quasi la metà dell'intera popolazione turca. E solo a Beyoglu si contano 25 sale cinematografiche, 450 librerie e 7 mila caffè e ristoranti. I prezzi delle case continuano a salire e sono sempre più numerosi i giovani manager turchi che, dopo avere studiato a Francoforte o a Boston, tornano in patria per aprire nuovi business.


Lungo l'Istiklal Caddesi, tra le facciate belle époque dei palazzi borghesi e delle legazioni europee, hanno aperto birrerie e fast-food, jeanserie e videoteche, boutique alla moda e rivendite di cibo biologico, negozi di computer ed estetisti che propongono piercing e tatuaggi. In una galleria d'arte sono esposti i ritratti di Pablo Picasso, Winston Churchill e Federico Fellini del grande fotografo Ara Guler.

Al Pera Muzeum sono esposte le opere dei giovani pittori turchi: i nudi femminili di Burcin Erdi, le acide astrazioni di Yasemin Yilmaz, i paesaggi onirici di Baris Saribas. Si può tirare l'alba in una discoteca come il Babylon. O nei ristoranti postmoderni di Ortakoy, al Reina o all'House Café, guardando dalla terrazza le luci dell'Asia (sotto lo stretto è in costruzione una linea del metrò) e le navi che scivolano nell'acqua del Bosforo, fumando il narghilé nel bar di un ex villaggio di pescatori dove convivono, una accanto all'altra, una chiesa, una moschea e una sinagoga.

La minaccia fondamentalista sembra meno incombente. Alberghi, musei, edifici pubblici e banche sono dotati di metal detector e sorvegliati a vista da poliziotti e personale di sicurezza. «Ma gli integralisti autoctoni sono un'esigua minoranza» assicura Ali Isingor, caporedattore del settimanale Focus.

«Gli attentati degli ultimi anni sono stati perpetrati da cellule composte in prevalenza da terroristi arabi. Anche il Pkk, che ha ripreso ad attaccare le caserme dell'esercito nel sud-est dell'Anatolia, è spaccato. Dopo trent'anni di guerra civile e di regimi militari, i curdi si rendono oggi conto che la democratizzazione del paese rende superflua la lotta armata».

Il percorso democratico è ancora lacunoso. Ed è insieme alla questione cipriota uno dei «pretesti», come li definisce la stampa turca, che ostacolano l'ingresso di Ankara nell'Unione Europea. Pretesti cavalcati in Occidente soprattutto dalla Francia e dalla Cdu tedesca, che hanno però seri fondamenti.

La libertà di espressione su argomenti delicati è lungi dall'essere garantita e Reporter Senza Frontiere continua a denunciare casi di arresti arbitrari e di intimidazioni nei confronti dei giornalisti. Emblematica è la vicenda dello scrittore Orhan Pamuk, noto in Italia soprattutto per il romanzo Neve, tradotto in una ventina di lingue.

Per avere affermato durante un'intervista a un quotidiano svizzero che i turchi hanno massacrato 30 mila curdi e 1 milione di armeni, è stato accusato di «insulto all'identità nazionale».

«Un reato che a norma dell'articolo 301/1 del codice penale» spiega il suo editore Tugrul Pasaoglu «contempla una condanna a 36 mesi di carcere. Il processo dovrebbe cominciare il 16 dicembre».

Ma Ankara ha fretta di arrivare a Bruxelles.

La sua impazienza si è manifestata lo scorso 15 settembre con un bizantinismo diplomatico: l'invito ufficiale in Turchia a Papa Ratzinger «nel corso del 2006», benché fosse noto il desiderio di Benedetto XVI di effettuare il viaggio il prossimo 30 novembre, in occasione della festa di Sant'Andrea, venerato dai cattolici e dalle Chiese orientali. Un chiaro tentativo di spingere il Vaticano a modificare la tiepida posizione del Pontefice sull'adesione del paese musulmano alla Ue.

Tra i giovani (in Turchia l'età media è 19 anni) e gli intellettuali di Istanbul le perplessità europee sono invece accolte con crescente indifferenza. E con un pizzico di residuo sciovinismo: «La Ue è un club di vecchi burocrati» osserva Mehmet, studente di fisica. «Ne abbiamo davvero bisogno? È piuttosto l'Europa ad aver bisogno della Turchia».

Sarà l'Occidente, come in passato, ad approdare a Costantinopoli? Il ministro degli Esteri inglese Jack Straw sostiene che «l'ingresso nella Ue di una democrazia laica che rispetta l'Islam sancirà la sconfitta dei profeti di uno scontro tra civiltà». Ma ci sono anche ragioni più concrete.

Il 25 maggio è stato inaugurato il megaoleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.

A pieno regime pomperà un milione di barili di greggio dal Caspio alla costa mediterranea della Turchia, destinata perciò a diventare un paese chiave per le forniture energetiche dell'Europa e del mondo occidentale.



P.S.: Questo articolo firmato da Giovanni Porzio, e' pubblicato in 27/09/2005 su Panorama.

05 ottobre, 2005

Un gigante alla porta


ISTANBUL - Proviamo a pensare, per un momento, alla Turchia dentro l'Europa. All'ultimo piano di un palazzo nella parte asiatica di Istanbul con vista sul Bosforo e le isole dei Principi l'immaginazione si scioglie, soprattutto se l'interlocutore è lo scrittore Ahmet Altan che qui ha catturato l'attenzione di migliaia di lettori.

Il suo ultimo libro di racconti, "Un luogo dentro di noi", (tradotto in cinque lingue ma non in italiano) ha venduto più di un milione di copie, stracciando tutti i record dell'editoria turca. Mentre Erdogan, l'uomo del destino, fuori raccoglie in piazza il suo trionfo, Altan e altri, strateghi, economisti, sociologi, gente comune, ci possono aiutare a capire che cosa significa avere un giorno -forse tra più di dieci anni- la Turchia nell'Unione.

"Mi congratulo con gli europei -dice Altan- per avere aperto alla Turchia: è una grande sfida culturale. Noi siamo barbari, selvaggi, primitivi, siamo una stella che esce dalla nebulosa della storia. Una stella che emana una luce vivida, accecante, per scaldare un'Europa fredda che oggi ha bisogno di una sorta di elettroshock per rivitalizzare una cultura straordinaria ma invecchiata, da museo. Sarà per tutti voi europei un secondo Rinascimento: uniremo la saggezza e la razionalità dell'Europa alle nostre calde emozioni..."

Certo, la vecchia Europa la portiamo nel cuore, nella mente e soprattutto sulle spalle: tra 10 anni i 70 milioni di turchi potranno diventare 80 e qui l'età media è di 26 anni contro i 46 dell'Unione.

Altan è suggestivo ma parla anche con franchezza: "Cari signori, noi siamo per niente europei, voi lo siete troppo e per questo avete bisogno dei turchi. No, per favore, non deve guardare fuori l'orizzonte magico di Istanbul, non si lasci ingannare da questa città magnifica, è una metropoli cosmopolita che è più grande ma anche più piccola di tutta la Turchia e di quello che significa essere turco."

Diamo uno sguardo alla carta geografica per capire qual è la "nebulosa della storia" di cui parla Altan. I turchi sono arrivati qui dalla Cina con una migrazione durata un millennio per insediarsi nel decimo secolo sull'altopiano anatolico, sono diventati musulmani trascinando nell'Islam lo sciamanesimo e nel 1453 hanno conquistato Costantinopoli fondando l'Impero ottomano.

Nei secoli si sono disseminati dalla Siberia, al Caucaso, all'Asia centrale: parlano turco circa 150 milioni di asiatici, balcanici e mediorientali e con la disgregazione dell'Urss sono diventati la componente dominante in Azerbaijan (gli azeri), Kazakhstan, Kirghizstan, Uzbekistan, Turkemenistan. I popoli turcofoni sono numerosi nello Xinjiang cinese (gli uiguri), in Afghanistan, in Iran, in Irak (i turcmeni), in Bulgaria, nell'ex Jugoslavia, in Russia.

Ma restiamo dentro i tremila chilometri di frontiere della Turchia che confina con Siria, Iran, Irak, Georgia, Bulgaria, Armenia e anche con l'Azerbaijan (un lembo di 18 chilometri): sotto il cielo dell'Unione un giorno potranno vivere 12-13 milioni di curdi, 7-8 milioni di turchi di origine balcanica, che sono bosniaci, macedoni, albanesi, pomaci, bulgari, tre milioni di circassi di origine caucasica ma anche 3 milioni di Laz, i discendenti dei greci pontiaci, oggi in gran parte mescolati ai turchi e di religione musulmana. Ma ci sono anche 20 mila ebrei, 60 mila greci, migliaia di armeni, oltre a 40-50 mila rom, in gran parte insediati in Tracia.

Sono queste frontiere che preoccupano gli europei. I popoli in cammino e i profughi arrivano a migliaia ogni anno. In Turchia ci sono un milione di iraniani, di cui la metà vive senza permesso di soggiorno. Ai confini sono stati fermati l'anno scorso 48 mila arabi, 19 mila pakistani, 18 mila afghani, 12 mila iraniani, 8 mila palestinesi. Ma queste cifre riguardano solo il 20 % di quelli che hanno attraversato i confini turchi. Per controllare le sue frontiere la Turchia impiega 80 mila uomini in divisa. Ci sono confini caldi, come quello con l'Irak o la Siria, 900 chilometri dove negli anni Ottanta per combattere la guerriglia curda del PKK furono costruiti bunker ogni 300 metri e interrate migliaia di mine.

Ma la Turchia è anche l'incrocio geopolitico delle vie del petrolio e del gas, dall'Irak, dall'Iran, dalla Russia, dall'Azerbaijan e dall'Asia centrale: migliaia di chilometri di condutture, per terra e per mare, che rappresentano uno degli asset strategici di questo paese che fanno gola all'Europa. Con la Turchia si dominano gli Stretti, si è proiettati in Asia e in Medio Oriente. "Senza la Turchia l'Europa non potrà mai diventare una superpotenza, la Turchia è fondamentale per dare all'Unione una dimensione globale", dice secco il generale Cevik Bir, ex vice capo di stato maggiore, che ha comandato diverse missioni militari internazionali. Le forze armate turche superano quelle di Francia e Gran Bretagna messe insieme: 520 mila uomini più 380 mila nella riserva, ben addestrati, induriti da anni di combattimenti contro la guerriglia curda, dotati di equipaggiamenti e di un'aviazione di primordine.

Gli economisti preferiscono ovviamente mettere l'accento su altri dati. Norman Stone, americano che insegna all'Università di Bilkent, sottolinea il "grande balzo" storico della Turchia: "Non stupisce che quest'anno nei primi sei mesi ci sia stata una crescita record del 12 per cento. Questo Paese ha fatto progressi straordinari: nel 1923 quando venne fondata la Repubblica di Ataturk il Pil era di 5,7 miliardi di dollari, oggi il fatturato di un gruppo come Koc è di 14 miliardi di dollari. In ottant'anni la ricchezza della Turchia è aumentata di 42 volte con un ritmo medio di crescita annua del 4,8%. Venti anni fa l'economia svedese era il triplo di quella turca ma oggi Ankara ha superato la Svezia e se continua così tra 15 anni il commercio turco supererà quello della Russia."

Ma lasciamo da parte le cifre e torniamo all'orizzonte dei minareti sul Bosforo. "Capisco" dice Altan, "che in Europa oggi preoccupano le differenze culturali e la religione. Ma noi turchi, che rappresentiamo mille culture diverse, siamo musulmani particolari: mangiamo durante il Ramadan, beviamo il vino a Bajram e siamo troppo pigri per pregare cinque volte al giorno. Amiamo il benessere e la felicità. Cose che mancano in gran parte del mondo musulmano: ieri a Bruxelles l'Europa e la Turchia hanno inviato un messaggio di speranza a questo mondo."



P. S.: Questo articolo firmato di Alberto Negri, pubblicato in 19/12/2004 sul Sole 24 Ore, si e' fatta con la collaborazione della giornalista Turca Umida Salih.

04 ottobre, 2005

"Avrupa'ya hos geldiniz!"


Erano due giorni duri per noi giornalisti... Due lunghe giornate tra annunci e smentite, poi la conferma: intesa sul documento definito tra Gran Bretagna, Turchia, Austria e Cipro.

Hanno dato finalmente via ai negoziati.
La Turchia vede sparire la possibilità di accedere all'Ue solo attraverso un "partenariato speciale". La piena adesione ormai sara' lo scopo delle trattative prossime, che forse dureranno piu' di 10 anni.

Dopo 42 anni pieni di promesse, per i Turchi era veramente "scandolosa" vedere gli Europei che proponevano questa via. Per i Turchi -che in genere sono gente di parola, al contrario degli Europei- tutto questi giochi politici, litigi, promessi, compromessi e' una cosa nuova; e devono abituarsi nell'Unione....

Forse la parola piu' significativa fu della inviata di Le Figaro, giornale Francese: "Benvenuti in Europa! Qui le cose camminano cosi, vi dovete abituare!"

(...)

Io, Alberto Negri (Il Sole 24 Ore) e Antonio Ferraris (Corriere della Sera) abbiamo seguito insieme tutte queste trattative. E probabilmente la testata del Sole 24 Ore di domani, sara' in Turco: "Avrupa'ya hosgeldiniz!"

E' la stessa frase che ha detto l'inviata di Le Figaro: "Benvenuti in Europa!"