08 ottobre, 2005

Istanbul: l'Europa è già qui


Otto milioni di nuovi telefonini in un anno, crescita economica al 9 per cento, un oleodotto gigantesco... Il primo paese islamico che bussa alle porte Ue, e non viene bene accolto, provocatoriamente si chiede: ma ne abbiamo bisogno?

È un fiume in piena che si riversa ogni sera in Istiklal Caddesi, giù per l'isola pedonale che scende dalla collina di Galata fino al Corno d'Oro attraversando il vecchio rione genovese.

Un fiume di giovani, luci e colori, in cui si mescolano volti caucasici e turchi, greci e russi, curdi e uzbeki. Sfilano studentesse con il velo islamico da cui spuntano le cuffie dell'iPod e ragazze con l'ombelico nudo, suonatori di sax, flautisti sufi, violisti gitani, rapper e agenti di borsa con il laptop sottobraccio.

Potrebbe essere una strada di Londra, di Milano, Vienna o Berlino, se non fosse per la contadina con il fazzoletto scarlatto annodato sul mento e i larghi sirwal ai fianchi, che offre cestini di lavanda profumata agli avventori di un affollato Burger King. O per la voce tremula del muezzin, che dalla moschea di Huseyin Aga si danna per sovrastare la cacofonia dell'house music imperante nei bar.

La vita notturna di Istanbul che pulsa a Beyoglu, l'ex quartiere cristiano di Pera, è lo specchio della rinascita culturale ed economica di una città riemersa da un lungo periodo di decadenza e proiettata nel futuro.

Alla vigilia dell'apertura dei negoziati per l'adesione della Turchia alla Ue (3 ottobre), Istanbul offre di sé l'immagine di una metropoli più cosmopolita, più aperta, persino più laica e tollerante di molte città italiane ed europee.

Istanbul non è la Turchia dell'Anatolia profonda. E nelle sue sterminate periferie dilagano gli slum di un'urbanizzazione selvaggia, segnata dalle piaghe della povertà, dell'emarginazione e della droga.

Ma la megalopoli (10 milioni di abitanti) ospita il 45 per cento dell'industria nazionale, produce il 55 per cento del pil e genera il 60 per cento dell'export. Ed è il motore di una spettacolare crescita delle attività commerciali e dei consumi.

Come testimonia il numero dei mercantili alla fonda nel Mar di Marmara, sotto gli imponenti profili del Topkapi e della Moschea blu: almeno un centinaio tra petroliere, gasiere, cargo, portacontainer e navi frigorifere in attesa di riempire le stive, di risalire il Bosforo dirette agli scali russi o di salpare per i porti del Mediterraneo.

Le riforme strutturali caldeggiate dal Fondo monetario e dalla Ue non hanno cancellato l'eccessivo indebitamento pubblico e con l'estero (17 miliardi di dollari), né la soffocante presenza dello stato nel settore bancario, dei trasporti e delle comunicazoni. Ma il tasso d'inflazione è sceso in soli tre anni dal 70 all'8 per cento, la disoccupazione è in calo, il sistema economico cresce al ritmo del 9 per cento, il turismo è florido, la borsa è ai massimi storici e le privatizzazioni vanno avanti.

In agosto la Turk Telekom ha venduto il 55 per cento delle sue azioni a Saudi Oger e Telecom Italia. In settembre, il 51 per cento della raffineria Tupras è andato a privati locali e alla Shell. Una tendenza che il governo di Recep Tayyip Erdogan è deciso a consolidare, nonostante la contrarietà dell'ultranazionalista presidente Ahmet Necdet Sezer.

Solo nell'ultimo anno sono stati venduti 8 milioni di telefoni cellulari e gli abbonati sono oltre 35 milioni, quasi la metà dell'intera popolazione turca. E solo a Beyoglu si contano 25 sale cinematografiche, 450 librerie e 7 mila caffè e ristoranti. I prezzi delle case continuano a salire e sono sempre più numerosi i giovani manager turchi che, dopo avere studiato a Francoforte o a Boston, tornano in patria per aprire nuovi business.


Lungo l'Istiklal Caddesi, tra le facciate belle époque dei palazzi borghesi e delle legazioni europee, hanno aperto birrerie e fast-food, jeanserie e videoteche, boutique alla moda e rivendite di cibo biologico, negozi di computer ed estetisti che propongono piercing e tatuaggi. In una galleria d'arte sono esposti i ritratti di Pablo Picasso, Winston Churchill e Federico Fellini del grande fotografo Ara Guler.

Al Pera Muzeum sono esposte le opere dei giovani pittori turchi: i nudi femminili di Burcin Erdi, le acide astrazioni di Yasemin Yilmaz, i paesaggi onirici di Baris Saribas. Si può tirare l'alba in una discoteca come il Babylon. O nei ristoranti postmoderni di Ortakoy, al Reina o all'House Café, guardando dalla terrazza le luci dell'Asia (sotto lo stretto è in costruzione una linea del metrò) e le navi che scivolano nell'acqua del Bosforo, fumando il narghilé nel bar di un ex villaggio di pescatori dove convivono, una accanto all'altra, una chiesa, una moschea e una sinagoga.

La minaccia fondamentalista sembra meno incombente. Alberghi, musei, edifici pubblici e banche sono dotati di metal detector e sorvegliati a vista da poliziotti e personale di sicurezza. «Ma gli integralisti autoctoni sono un'esigua minoranza» assicura Ali Isingor, caporedattore del settimanale Focus.

«Gli attentati degli ultimi anni sono stati perpetrati da cellule composte in prevalenza da terroristi arabi. Anche il Pkk, che ha ripreso ad attaccare le caserme dell'esercito nel sud-est dell'Anatolia, è spaccato. Dopo trent'anni di guerra civile e di regimi militari, i curdi si rendono oggi conto che la democratizzazione del paese rende superflua la lotta armata».

Il percorso democratico è ancora lacunoso. Ed è insieme alla questione cipriota uno dei «pretesti», come li definisce la stampa turca, che ostacolano l'ingresso di Ankara nell'Unione Europea. Pretesti cavalcati in Occidente soprattutto dalla Francia e dalla Cdu tedesca, che hanno però seri fondamenti.

La libertà di espressione su argomenti delicati è lungi dall'essere garantita e Reporter Senza Frontiere continua a denunciare casi di arresti arbitrari e di intimidazioni nei confronti dei giornalisti. Emblematica è la vicenda dello scrittore Orhan Pamuk, noto in Italia soprattutto per il romanzo Neve, tradotto in una ventina di lingue.

Per avere affermato durante un'intervista a un quotidiano svizzero che i turchi hanno massacrato 30 mila curdi e 1 milione di armeni, è stato accusato di «insulto all'identità nazionale».

«Un reato che a norma dell'articolo 301/1 del codice penale» spiega il suo editore Tugrul Pasaoglu «contempla una condanna a 36 mesi di carcere. Il processo dovrebbe cominciare il 16 dicembre».

Ma Ankara ha fretta di arrivare a Bruxelles.

La sua impazienza si è manifestata lo scorso 15 settembre con un bizantinismo diplomatico: l'invito ufficiale in Turchia a Papa Ratzinger «nel corso del 2006», benché fosse noto il desiderio di Benedetto XVI di effettuare il viaggio il prossimo 30 novembre, in occasione della festa di Sant'Andrea, venerato dai cattolici e dalle Chiese orientali. Un chiaro tentativo di spingere il Vaticano a modificare la tiepida posizione del Pontefice sull'adesione del paese musulmano alla Ue.

Tra i giovani (in Turchia l'età media è 19 anni) e gli intellettuali di Istanbul le perplessità europee sono invece accolte con crescente indifferenza. E con un pizzico di residuo sciovinismo: «La Ue è un club di vecchi burocrati» osserva Mehmet, studente di fisica. «Ne abbiamo davvero bisogno? È piuttosto l'Europa ad aver bisogno della Turchia».

Sarà l'Occidente, come in passato, ad approdare a Costantinopoli? Il ministro degli Esteri inglese Jack Straw sostiene che «l'ingresso nella Ue di una democrazia laica che rispetta l'Islam sancirà la sconfitta dei profeti di uno scontro tra civiltà». Ma ci sono anche ragioni più concrete.

Il 25 maggio è stato inaugurato il megaoleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.

A pieno regime pomperà un milione di barili di greggio dal Caspio alla costa mediterranea della Turchia, destinata perciò a diventare un paese chiave per le forniture energetiche dell'Europa e del mondo occidentale.



P.S.: Questo articolo firmato da Giovanni Porzio, e' pubblicato in 27/09/2005 su Panorama.

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